Con l’inizio di Agosto uscirà un nuovo album dei June Of 44, il primo dopo 21 anni di silenzio discografico. Il lavoro verrà pubblicato in vinile direttamente dalla band (e sarà acquistabile quasi esclusivamente tramite internet), mentre la versione in cd sarà distribuita in Europa dall’italiana La Tempesta Dischi. I brani che conterrà saranno otto (ReRecorded Syntax è già ascoltabile sul loro Bandcamp) e saranno tutte rivisitazioni o remix di brani già pubblicati nel corso della loro carriera.
Quando ho saputo della notizia ho avuto un sussulto non da poco e, preso dall’entusiasmo, ho scelto di riascoltarmi tutta la loro discografia e di scriverne. Questo è quello che ne è venuto fuori.

Engine Takes To The Water (1995)
La prima cosa da dire sui June Of 44, ancor prima di parlare dei loro dischi, è che nella realtà dei fatti erano una sorta di supergruppo: Fred Erskine e Sean Meadows arrivavano entrambi dal post hardcore (il primo suonava negli Hoover, il secondo nei Lungfish), Jeff Mueller aveva fondato i Rodan e Doug Scharin era stato membro sia dei Codeine che dei Rex. I quattro, deciso nel 1994 di provare a fare qualcosa insieme, esordiscono direttamente sulla lunga distanza l’anno successivo con gli otto brani di “Engine Takes To The Water”. L’album, pubblicato dalla Quarterstick Records, diventa immediatamente una pietra miliare del post rock, convincendo tutti per il suo suono ruvido e cerebrale in grado di mescolare in maniera intelligente Rodan e Slint, oltre ad inserire elementi che provavano timidamente a guardare verso nuove direzioni (il math rock e il jazz, ad esempio).
L’apertura del lavoro è affidata a Have A Safe Trip, Dear, un biglietto da visita lungo otto minuti abbondanti in cui all’intro timido e minimale si contrappone un cuore rabbioso e hardcore in grado di esplodere in faccia all’ascoltatore, come una bomba ad orologeria di cui non si conosce il timing.
Il groove rapido e sinuoso di June Miller, subito dopo, guidato da un incalzante riff di chitarra, stempera i toni (oltre a ricordare i Fugazi), mentre le astrazioni sonore di Pale Horse Sailor, giocate su un crescente stato di tensione e drammaticità, si acuiscono con l’ossessività math-core di Mindel (chitarra e basso sempre in equilibrio su note taglienti e sbilenche, ritmiche tanto quadrate quanto ripetitive). I delicati arpeggi di I Get My Kicks For You, accompagnati da lontane note di tromba e parole mormorate a denti stretti, aprono la seconda metà dell’album, dissolvendosi poi in echi e riverberi dal piglio spettrale e poco confortevole. Anche la successiva Mooch parte morbida e con arpeggi di chitarra, ma durante i suoi sei minuti di durata, la potenza elettrica cresce sempre più, sfogandosi definitivamente nel finale. Il penultimo brano in scaletta, invece, prende a pugni l’ascoltatore dall’inizio alla fine, catapultandolo nel bel mezzo di una mareggiata sonora dove chitarra e batteria ribollono continuamente, togliendo il respiro e facendo completamente perdere l’orientamento. Il compito di rimetterci in carreggiata spetta dunque alla conclusiva Sink Is Busted, canzone perfetta sotto ogni punto di vista, in grado di combinare ottime melodie, ritmi semplici e atmosfere tanto emotive quanto avvolgenti.
L’opera prima dei June Of 44 è, senza ombra di dubbio, una perla rara da custodire gelosamente. Dentro questi otto brani, infatti, c’è uno spessore compositivo e una qualità artistica che avrebbero fatto invidia a chiunque: guizzi hardcore sempre più destrutturati e generatori di nuove visioni sonore; trame strumentali che fanno dell’essere metodiche e cerebrali il loro punto di forza; scelte melodiche in grado di attirare l’attenzione in ogni occasione, soprattutto nei momenti più arditi.
Voto: 7,5

Tropics And Meridians (1996)
La distanza che separa “Engines Takes To The Water” da “Tropics And Meridians” è veramente poca. Il nuovo disco, infatti, pubblicato ad appena un anno dal precedente, riprende il suono che aveva caratterizzato l’esordio, scegliendo però di focalizzarsi maggiormente sulla componente energica ed abrasiva, piuttosto che sulla parte melodica ed emotiva (l’influenza degli Shellac appare più che evidente, vista anche la presenza di Bob Weston alla produzione).
A dare il via è il lungo viaggio sonoro portato avanti da Anisette, brano tortuoso e tormentato che fa del ritmo cadenzato e dell’onnipresenza delle chitarre il suo tratto distintivo, mentre la voce, sempre gridata, racconta di tormenti impossibili da placare. Sulla stessa linea di pensiero è la successiva Lusitania, breve traccia dedicata all’affondamento del transatlantico britannico, mentre i quasi otto minuti di Lawn Bowler, partendo con un deprimersi di chitarre e suono, riprende i morbidi arpeggi dell’esordio (interessante l’ottima linea di basso), dando vita a una ciclica ripetitività che fa prevalere la ragione sull’impulsività emotiva. L’elettricità emessa da June Leaf, invece, nonostante la sua forza, risulta poco opprimente e soffocante, lasciando che a seguire sia il delicato abbraccio della sognante e confortante Arms Over Arteries (chitarre, basso e batteria focalizzati su atmosfere morbide e solari, voce sussurrata dal sapore di ninna nanna). La chiusura dell’album, infine, è lasciata in mano a Sanctioned In A Birdcage e alla sua quantomai attuale preoccupazione legata al vivere rinchiusi in una gabbia d’oro, dove all’illusione di vivere nel migliore dei modi si contrappone un forte senso di prigionia e di vita non vissuta appieno.
Con questo secondo capitolo discografico i June Of 44, forse presi dalla troppa fretta di voler pubblicare nuovo materiale, perdono un pochino del genio che caratterizzava il disco d’esordio. “Tropic And Meridians” non suona male, assolutamente, però lascia intravedere una lieve stanchezza compositiva e una omogeneità sonora che tende ad uniformare tutto, impedendo ai singoli brani di sviluppare, di volta in volta, una propria specifica personalità.
Voto: 7

The Anatomy Of Sharks (1997)
Non contenti di aver pubblicato due album nel giro di poco più di un anno, a sei mesi di distanza dall’ultima uscita discografica i June Of 44 danno alle stampe l’ep “The Anatomy Of Sharks”, nuovo capitolo musicale contenente materiale registrato durante le sessioni di “Tropics And Meridians”.
Il vero cavallo di battaglia dell’intero lavoro è l’iniziale Sharks & Sailors, brano che supera gli undici minuti di durata e in cui, in mezzo a rabbiosi sfoghi hardcore, si inseriscono ampi spazi di distensione sonora che molto hanno a che vedere con delicate visioni jazz/post rock. Non bisogna però sottovalutare il valore dei restanti due brani: il primo, Boom, prosegue sulla via della sperimentazione combinando ritmiche tribali e lontani squilli di tromba, tanto solitari quanto disperati e angoscianti; il secondo, Seemingly Endless Steamer, sviluppa un crescendo drammatico e allucinato che tiene con il fiato sospeso per tutta la sua durata, dando l’impressione che qualcosa di davvero terribile stia per accadere.
Con questo breve ep i June Of 44 convincono di più di quanto non abbiano fatto con il precedente “Tropics And Meridians”. I tre brani presentati, infatti, nonostante prendano ognuno una propria direzione, si caratterizzano per una comune tendenza a cercare di sperimentare e di andare oltre gli standard e i cliché che la stessa musica della band cominciava a mostrare. Il livello qualitativo è davvero alto e il consiglio, anche a più di venti anni di distanza dalla sua pubblicazione, è sempre quello di ascoltarlo con attenzione.
Voto: 7,5

Four Great Points (1998)
Il terzo album dei June Of 44 arriva nei primi mesi del 1998, si chiama “Four Great Points” e, fin da subito, si guadagna il titolo di loro miglior album pubblicato fino a quel momento. Gli otto brani presentati, infatti, mettendo quasi completamente da parte le influenze hardcore, concentrano l’attenzione sullo sviluppare un suono delicato e cerebrale, fatto di stratificazioni sonore, cura per gli arrangiamenti, ricerca melodica e sensibilità emotiva.
Il via all’opera viene dato dall’ottima Of Information & Belief, brano morbido e pacato che, escluso un breve momento di urgenza elettrica, prende per mano l’ascoltatore, guidandolo in un mondo onirico fatto di preziose trame strumentali. The Dexterity Of Luck, invece, costruita intorno a un suono di chitarra che si porta dentro un forte senso di ansia, ipnotizza con le sue ritmiche cadenzate ed inesorabili, dando vita ad emozioni claustrofobiche. Sulla stessa linea di pensiero, anche se meno opprimente, è la successiva Cut Your Face, brano nero che, letteralmente, taglia la faccia con le sue rasoiate di chitarra. Con la successiva Doomsday, invece, si volta completamente pagina e ci si perde in quattro minuti abbondanti di fascinazioni strumentali: le ritmiche di Doug Scharin entrano in testa come un mantra; le chitarre danno forma ad un universo fatto di ricami sonori; il basso, con il suo spirito minimale, sorregge l’intera struttura. Does Your Heart Beat Slower, a seguire, intreccia suoni in modo magistrale, lasciando poi spazio all’altrettanto interessante Lifted Bells, pezzo realizzato insieme a Bundy K. Brown e molto vicino, nelle idee e negli intenti, a certe sperimentazioni jazz già messe in atto dai Tortoise. Il pigro svolgersi di Shadow Pugilist, infine, ondeggiando tra pacate note di chitarra e voce svogliata, cede il passo alla conclusiva Air #17, pezzo di rara bellezza in cui tra un lontano rumore di macchina da scrivere prendono vita avvolgenti atmosfere autunnali, figlie di un ispirato incontro fra arpeggi di chitarra, malinconiche note di tromba, ritmiche regolari e spoken word riflessivo e vagamente disilluso.
Con questo album i June Of 44 raggiungono il loro massimo splendore. La ruvidezza degli esordi, infatti, viene imbrigliata e incanalata nelle giuste direzioni, mentre uno spirito riflessivo e sempre più poetico prende il sopravvento, rendendo i brani presentati tanto cerebrali quanto istintivi e carichi di sentimenti. Ogni singolo pezzo descrive e racconta una propria storia, ma, allo stesso tempo, non perde di vista la complessità dell’insieme, dando vita ad un’opera tanto variegata quanto compatta.
Voto: 8

Anahata (1999)
Che cosa sia accaduto ai June Of 44 tra il 1998 e il 1999 probabilmente non lo sapremo mai, ma quel che è certo è che a testimoniare il loro tracollo compositivo e artistico ci sarà per sempre “Anahata”, il loro quarto ed ultimo album. Il lavoro, discostandosi notevolmente dalla produzione precedente, presenta suoni molto più puliti ed accattivanti, strutture ridotte all’osso, discutibili azzardi sonori e intellettualismo fuori luogo.
L’iniziale Wear Two Eyes (rivisitazione di Boom di “The Anathomy Of Sharks”), incredibilmente quadrata dal punto di vista dell’incedere ritmico, crea delle buone aspettative, grazie principalmente all’allucinato e mistico combinarsi di voce, chitarre effettate e affascinanti squilli di tromba, ma già la successiva Escape Of The Levitational Trapeze Artist spezza il cuore irrimediabilmente con il suo andamento ubriaco, respingente e totalmente sgangherato. Cardial Atlas, terza in scaletta, procede con spirito stanco e cadenzato non lasciando spazio a possibili entusiasmi (se non per la tridimensionalità data al pezzo dal pianoforte e dalla viola), mentre Equators To Bi-Polar, costruita su anonimi esercizi di stile, cede il passo a Recorded Syntax, brano dal piglio vagamente tormentato che prova a ricollegarsi agli album precedenti. Southeast Of Boston, inciampando male, finisce per creare un suono che non pare altro se non una brutta copia di quello dei Tortoise (c’è anche il vibrafono a suggerire una somiglianza con la band), cosicché il compito di sollevare le sorti di un album ormai segnato viene lasciato all’irrilevante Five Bucks In My Pocket (imbarazzante sotto tutti i punti di vista) e alla conclusiva Peel Away Velleity, brano senza spessore che ha il solo pregio di riuscire a non aggravare ulteriormente la situazione.
L’unico cosa che si può dire su “Anahata” è che, semplicemente, tutto quello che di sbagliato si poteva fare, in questi otto brani è stato fatto. Probabilmente c’era già aria di scioglimento e, inevitabilmente, le ultime composizioni della band ne hanno risentito.
Voto: 4,5

In The Fishtank 6 (1999)
I June Of 44 decidono di sciogliersi nel 1999, a pochi mesi di distanza dalla pubblicazione del disastroso “Anahata”. Il loro è un addio abbastanza silenzioso, senza grandi proclami, probabilmente dettato dal fatto che l’ultimo lavoro non era andato bene, che il tempo da dedicare alla band era ormai risicato e che i vari progetti paralleli dei quattro musicisti stavano procedendo in modo più che positivo.
A chiudere la loro carriera è “In The Fishtank 6”, un ep lungo quasi mezz’ora e registrato dal vivo, in cui la band, chiamata a suonare dalla Konkurrent (etichetta olandese che stava portando avanti una ambiziosa serie di uscite discografiche), suona sei brani inediti, realizzati per l’occasione.
L’apertura del lavoro è affidata alle lunghe e nebulose note della tranquilla e solitaria Pregenerate, brano dall’animo psichedelico in grado di avvolgere delicatamente l’ascoltatore. Le tinte funk/jazz di Generate, invece, tra impulsi sonori regolari e ammiccamenti quasi pop, lascia che a seguire sia il romantico calore estivo evocato da Henry’s Revenge, brano strumentale in cui morbide note di chitarra e sobri ritmi elettronici si completano a vicenda. Modern Hereditary Dance Steps pesca a piene mani dal krautrock, filando dritta come un treno per i suoi cinque minuti abbondanti di durata, mentre la successiva Every Free Day A Good Day, con il basso in primo piano, costruisce fondali sonori vagamente disturbanti e angoscianti. La conclusiva Degenerate, infine, malinconica e pensierosa, racconta di un mondo sottomarino tutto da scoprire, costellato di sfumature e lievi turbolenze sonore.
L’ultimo capitolo discografico dei June Of 44 non è un capolavoro, ma nemmeno un disastro. Sta lì nel mezzo, intorno alla sufficienza, convincendo in alcune occasioni e lasciando abbastanza indifferenti in altre. Non è un disco speciale, ma vale la pena ascoltarlo almeno una volta, giusto per farsi un’idea di come, nel corso degli anni, il loro suono si sia trasformato.
Voto: 6,5
(27/07/2020)