
Collettivo Ginsberg – Kintsugi
Una delle regole base che ho scelto di seguire quando ho deciso di aprire Cose Sbagliate è stata quella di tenere il più lontano possibile gli uffici stampa e tutti coloro che promuovono musica.
L’idea non era quella di voler apparire snob o elitario, anzi, ma semplicemente quella di creare uno spazio che avesse confini netti e ben definiti, dentro cui agire senza subire pressioni o influenze di alcun tipo. L’obiettivo, infatti, era quello di parlare solo di cose per le quali secondo me valesse la pena spendere parole in merito, sia che si trattasse di dischi, film, serie tv o altro ancora.
Da quel momento sono ormai passati quasi due anni e, nonostante non abbia assolutamente cambiato idea al riguardo (la mia casella di posta vanta solo quattro mail inviate), devo ammettere di essere diventato meno intransigente: continuo a non concedere soddisfazioni a nessuno (soprattutto agli amici), ma ogni tanto mi ritrovo a curiosare nel materiale che mi viene spedito.
Il primo album che sia riuscito a colpirmi in questo mio rovistare si chiama “Kintsugi” e rappresenta il settimo capitolo discografico del Collettivo Ginsberg. Dietro questo nome, nella realtà dei fatti, non c’è una pluralità di individui, ma semplicemente Cristian Fanti, musicista intorno a cui, nel corso degli anni, si sono susseguite diverse formazioni. In questa occasione, l’unico altro nome ad emergere è quello di Marco Bertoni, il quale, in veste di produttore artistico, ha contribuito notevolmente nello sviluppo e nell’arrangiamento dei singoli pezzi. L’album, invece, composto da sette brani (otto se si considera anche la conclusiva bonus track), si caratterizza per un suono che combina certa tradizione cantautorale italiana (Cristiano Godano, Gianfranco Onorato, Francesco Bianconi) con elementi più tipici del post rock e dell’indie/folk.
Ad aprire il lavoro è l’immensa intensità di Al Chiaro Di Luna, canzone in grado di costruire un’entusiasmante tridimensionalità sonora in cui, fra synth, tastiere ed elettronica, emergono affascinanti atmosfere notturne e siderali. Il tempo si dilata e le parole, semplici e dirette, vengono scandite una ad una, costruendo una profondissima dedica d’amore (la canzone, come praticamente l’intero album, è dedicata alla figlia del musicista). Chiedi Alla Polvere, invece, guidata da ondeggianti note di pianoforte, si circonda di un fiorire di arrangiamenti, sbocciando in tutta la sua bellezza quando, nella seconda parte, si affida completamente agli strumenti. Il pacato dischiudersi di Notturno, incentrato prevalentemente sulla parte ritmica, focalizza l’attenzione su quel “tutto è vano, vano è il sogno/tutto è vano, tutto è sogno” sospeso in mezzo al silenzio, mentre la title track, rovente come un vecchio brano dei Bachi Da Pietra sotto effetti lisergici (in cui alla chitarra si sostituisce il pianoforte), lascia completamente a bocca aperta. La batteria scarna e minimale costruisce una cornice che sembra una prigione, ma l’intensità poetica del piano e del cantato strabordano costantemente, dando vita a un qualcosa di assolutamente eccezionale. La successiva Sentiremo Il Sapore, il cui testo è una traduzione della poesia “We Will Taste The Island And The Sea” di Charles Bukowski, prova a decomprimere, ma la tensione emotiva rimane alta e il fascino sonoro non accenna a diminuire. Con Una Calma Apparente ad essere protagonista è la voce, la quale, con la complicità della parte strumentale, si dimostra sempre pronta a salire e a squillare, scaldando l’animo e avvolgendo con il suo mondo a metà fra sogno, misticismo e romanticismo. La conclusiva La Grande Nevicata Del ’12, infine, per quanto a me sembri l’ennesima prova del valore artistico di Cristian Fanti, mi rendo conto che suoni in tutto e per tutto come un brano dei Sigur Ros periodo “( )”, per cui, per forza di cose, non posso che metterla un gradino sotto rispetto alle precedenti (ma vi garantisco che vale assolutamente la pena ascoltarla). La bonus track, poi, proponendo un passo del poema “Howl” di Allen Ginsberg, sonorizza un reading dell’autore stesso, senza però aggiungere nulla in più al resto dell’opera.
La forza evocativa di “Kintsugi” è davvero incredibile, così come la qualità di ogni singolo brano, sia dal punto di vista dell’idea artistica, sia per quanto riguarda il modo in cui effettivamente è stata realizzata. Cristian Fanti, con l’aiuto di Marco Bertoni, ha dato alle stampe un album di rara bellezza e non parlarne sarebbe stato davvero un peccato. Il pressing degli uffici stampa sarà sempre una spina nel fianco, ma sapere che in mezzo a un mare di parole preconfezionate si possono trovare tesori come questo, fa pensare che alla fine il gioco valga la candela.
(27/01/2021)
Voto: 8